Nel 2018 durante un viaggio in India con la sua comitiva di yoga, Marinella decise di fermarsi da Chellapa, un santone di Mamallapuram, nel Tamil Nadu, che leggeva l’Oroscopo in base alla data e orario di nascita. Decise di chiedere anche per me, per quanto non fossi fisicamente presente. Cose che succedono più frequentemente di quanto pensiamo: a quanti di noi è capitato per esempio di uscire a cena con amici e scoprire di non sapere nulla del proprio ascendente? Così, il più sensibile a questi argomenti avrà tirato fuori il proprio smartphone per andare su qualcosa tipo ascendente.it e sapere chi siamo e come siamo fatti. Spoiler: noi esseri umani siamo talmente vasti, nei nostri caratteri, che sicuramente ci riconosceremo in quello che ascendente.it o l’amico di turno amante di Rob Breszny dirà di noi. In ogni caso, Chellapa, dati alla mano, disse una cosa precisa: Sei molto fortunato, Federico. Questa è la tua ultima vita. Non avrai più reincarnazioni. E finalmente potrai riposare.
Qualche giorno fa chiacchierando con la mia amica poetessa Sharon, è venuto fuori che, secondo il viaggio iniziatico dei tarocchi, il mio arcano dell’anima è il 9: l’eremita. Si tratta della chiusura di un ciclo: chi ha questo arcano dell’anima non si reincarna più. Solitudine e ricerca interiore sono le parole chiave per questo arcano: con la mia lanterna sono in grado di illuminare tutto il percorso fatto fino a oggi e di accumulare saggezza.
In entrambi i momenti di rivelazione, dopo uno shock iniziale, mi sono subito posto la domanda delle domande: Cosa avrei fatto adesso, per non sprecare la mia vita?
Ora io non so dire se è andata proprio così, o se certe cose vanno così perché devono andare. Fatto sta che è dal 2018 che non riposo più: mi sono laureato in Indologia con una tesi sul teatro indiano (“La teoria dei rasa e dei bhava nel Natyasastra di Bharata”, persino il presidente di facoltà, durante la proclamazione, riuscì a ingarbugliarsi durante la lettura del titolo); ho iniziato a lavorare come addetto stampa per la stagione teatrale di un teatro e successivamente per la compagnia che si occupava della direzione artistica dello stesso; ho pubblicato il primo libro, poi il secondo, poi il terzo, poi il quarto (quarto e mezzo, perché pubblicato a due mani) e fra poco il quinto; ho insegnato Storia del Cinema; ho scritto articoli per 1 euro; ho scritto altri articoli pagati meglio; ho fatto il ghostwriter; ho fatto – faccio - il direttore artistico; sono andato a convivere; sono diventato papà; ho fondato una rivista di racconti e ho coinvolto più di 100 autori; ho scritto una cosina teatrale che ha “accompagnato” una performance di danza ed è stata messa in scena al Teatro Franco Parenti; ho girato città coi miei libri, a mie spese e il più delle volte guadagnandoci pure: Verbania, Lucca, Catania, Alessandria, Chiavari, Milano; ho amato; ho riso; ho pianto; ho letto tanto, instancabilmente; ho scritto tante cose che ancora non avete letto. E mi rammarico di non aver fatto ancora di più.
Sin da piccolo il concetto di “quantità” mi ha sempre affascinato: avere tanto, fare tanto, mangiare tanto (mio grande privilegio ma anche condanna se si pensa a quanto metaforicamente possa aprire dei portali sull’incertezza e sul recondito bisogno di affetto). Sapere tanto e sapere tutto. Con questa prerogativa ho deciso di aprire la partita iva: un lavoro non mi bastava, avere competenze solo in un ambito non ha mai fatto per me (mento: il mio ambito è la scrittura e tutte le collaborazioni partono da qui, ma almeno con questo tema ci ho fatto pace). In 5 anni ho pubblicato 5 libri. Tutto bello, ma è la tecnica più anti commerciale che esista. Ma d’altronde io sono un artista e certe cose non dovrebbero riguardarmi (errore!). In pratica, sono un ingordo. In pratica ci vivo bene. Se non fosse che quelle due o tre volte in cui mi trovo completamente disoccupato, senza nulla da svolgere nell’immediato, mi mandano in uno stato di depressione molto acuto. Non dormo per ingannare il tempo dalla scuola superiore. Quando sto male, mi basta mezza giornata per riprendermi.
Ma è questo, è realmente questo, il modo per sfruttare ogni secondo della propria esistenza? Riempire cassetti della propria anima, inseguire le cose da fare e crearsene di nuove solo per non cedere all’oblio. O piuttosto non è questa la via ideale per sfuggire a quella morte di cui sono soggetto anche io come tutti, malgrado il mio non ritorno in un nessuna altra forma?
A rispondermi, manco a farlo apposta, sono stati i libri. Le letture quotidiane (e notturne) mi si sono schiantate addosso come una grossa epifania distruttiva. È Padre Anselme, un personaggio minore del romanzo “Rimini” di Pier Vittorio Tondelli (1985) a rivolgersi a Bruno May, alter ego dello stesso Tondelli con queste parole: “Sei un radicato come me. Non abbiamo casa, ma ne abbiamo tantissime. Non abbiamo soldi, ma viviamo nel lusso, non pensiamo al domani ma siamo continuamente in progresso alla ricerca di qualcosa. Per questo il cattolicesimo ci va stretto da un certo punto di vista. Perché è fatto di oratori, di stanze chiuse, di paura del mondo. Noi invece abbiamo bisogno di aria e di girare. Amiamo quello che può darci il mondo. Ma c’è un fatto […] che cerchi Dio e non ti accontenti di averlo trovato. Vorresti una vita diversa, vorresti fermarti a riposare in Dio, ma non lo farai perché niente ti basterebbe mai. Molti vedono solo una piccola fessura dove tu trovi invece crepe e abissi. Cercherai Dio per tutta la vita e questo basterà a salvarti. Non smettere mai di cercare, ma sappi che, ovunque tu vada, ti guiderà sempre la sua Grazia.”
Così, la spiritualità diventa in me un fatto necessario ma non solo: essa è parte di quel processo di ricerca disperata che io compio agendo nel mondo. A dirla tutta, e in maniera davvero banale – mi sia quantomeno perdonato il fatto che non esista un corrispettivo così tanto forte- sto cercando Dio attraverso la pratica culturale. Scrivo per dare un senso alla mia esistenza.
Non nego un certo imbarazzo nell’ammettere quanto ho ammesso. Forse perché ho nascosto a me stesso quanto fosse determinante la ricerca del divino in un’attività tanto laica e inutile come la scrittura. Dove “laica” e “inutile” sono sempre stati dei punti a favore.
E allora vediamo, nelle poche righe rimaste, come fare a cercare Dio in maniera completamente artistica. Innanzitutto, serve una stanza vuota, fornita solamente di un tavolo, cui poggia un computer malandato, dotato di fogli virtuali. Le dita emettono input dettati non si sa bene da chi o cosa. Frasi senza un senso compiuto cercano di insinuarsi in maniera fondante, formano serpenti di Snake sempre più lunghi, si districano nei meandri dei quadretti (invisibili: è Word 2007). Il serpente di parole diventa sempre più lungo, a un certo punto si gira e, goffamente, si divora la coda, uccidendosi. Ecco quindi che si cerca Dio altrove: ci si alza, ci si spettina volutamente, si poggiano i piedi a terra in maniera sempre più spudorata, un po’ per catturare i pelucchi e le briciole della giornata ma anche e soprattutto per sperare inconsciamente che da qualche parte si trovi un chiodo e ci si faccia male, si pianga, si bestemmi un pochetto e si scriva del dolore appena provato. In mancanza del chiodo, si può ricercare quella sensazione in diversi altri modi: spogliandosi e affacciandosi alla finestra, contemplando la pelle d’oca formarsi in maniera immediata e uniforme sul proprio braccio oppure giocando a Indovina chi? con le finestre degli appartamenti di fronte: aprirle o chiuderle citando i personaggi storici del gioco da tavolo: Bill il grassoccio, Sam il vecchio, Charles il biondo baffuto. Urlare “È Sam??????” a quello uscito a buttare la spazzatura, indicando la finestra di fronte. Ribadirgli “Allora caxxone, è Sam o no?”. E farsi insultare per provare un’emozione. Oppure si può cercare Dio nel più autentico dei modi possibili, che è quello proprio della ricerca artistica pedissequa, il modo più vicino a trovarlo, quel Dio che tanto incontrerai e con cui starai per sempre in questa vita che è l’ultima possibile immaginabile. Mi riferisco all’ingresso, in maniera generosa e abbondante, nelle proprie viscere disgustose: spogliarsi di qualsiasi preconcetto imposto dalla società, sentirsi piccolo, immobile e viscido come solo ci si può sentire di fronte alla verità, la propria verità, quella scoperta durante i primi 7 anni di vita, quando ci si è confrontati con tutto per la prima volta. Abbracciare il proprio serpente interiore, accogliere il giudice e poi metterlo da parte, sentirsi vivi e bastarsi solo per quello che si è detto e fatto, che il mondo poi andrà come è sempre andato, i suoi abitanti non potranno che essere di passaggio e odiarsi o amarsi per dedizione naturale e inoppugnabile. Lì dentro, nelle viscere di sangue, materia fecale, informazioni divenute libri o archivio, Dio c’è. E il viaggio dell’uomo alla ricerca di Dio, o il viaggio di Dante alla ricerca di Beatrice, o il viaggio di Ulisse, può dirsi finalmente avvenuto.
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