Il pensiero del mese di marzo, a cura di Chiara Lopresti
Quando mi sono trasferita e sono partita ufficialmente dalla casa della mia infanzia per approdare nel porto della mia prima età adulta, mi dicevo che finalmente avrei potuto rifiatare e posare radici in un luogo scelto da me. La destinazione era la Francia, quel paese di cui ho sempre amato la cultura, la letteratura e anche quel sarcasmo dissacrante che – se ti prende alla sprovvista – può anche provocarti un sano senso di disagio.
Ero felicissima: avrei avuto per la prima volta i miei spazi, il mio nome su un contratto di affitto, sarei andata alla scoperta di qualcosa che ancora non conoscevo e che si stagliava magnificente di fronte ai miei occhi, pronto ad essere aggredita dal mio desiderio di scoperta. Per qualche mese, complice anche la complessa situazione famigliare, casa aveva acquisito un nuovo significato. Non più quell’immobile rosa dalle pareti ancor più rosa in cui ero cresciuta, ma quello marrone, con i mobili ancora più marroni in cui avevo deciso di abitare. Finalmente tiravo un sospiro di sollievo, finalmente potevo decidere autonomamente dove posare le mie radici e far sbocciare quella vita indipendente tanto agognata.
Con il passare dei mesi questa sensazione non decideva di arrestarsi: la prima volta che tornai indietro, in quei luoghi che mi sono sempre appartenuti, sono scappata nuovamente pochi giorni dopo: soffocavo. Il primo sospiro di sollievo mi rapì quando vidi il cartello “Montpellier”.
Ero tornata a casa. E mi sentivo bene, anche se mi accorgevo piano piano ma inesorabilmente che mi mancava qualcosa. Cosa? Non riuscivo ad afferrarlo. Mi accorsi con orrore un giorno che, camminando, non sentivo più i benefici di quando ero arrivata. Mi sentivo sola, persa, senza un vero progetto, con gli altri miei progetti che mi scivolavano tra le dita e che avanzavano senza di me, a riprova, ancora una volta, che non ero necessaria né importante: il mondo girava anche senza il peso della mia gravità e anzi prosperava anche senza la mia presenza. Ovunque mi voltavo vedevo dei dettagli sempre più insopportabili e prima invisibili ai miei occhi.
Mi resi conto solo dopo un po’ che stava tornando alla carica quella sensazione che speravo essermi lasciata alle spalle; stavo male. Per l’ennesima volta, il posto che avevo scelto non mi apparteneva, nello stesso modo in cui io non gli appartenevo, né gli sarei mai appartenuta. Mi ritrovai velocemente addosso la melma nera del dubbio e del rimorso. Avevo fatto bene a partire? Perché ero partita? Non avevo tutto quello che mi serviva tra quelle mure rosa? E le persone che avevo lasciato indietro? Mi avrebbero riaccolto? Come potevo riconquistare il loro amore? Mi amavano sempre o si erano dimenticati di me?
Dopotutto, se la mia vita non aveva smesso di scorrere, così la loro: dove mi sarei potuta inserire? A quel punto stare in quella casa marrone mi risultava impossibile. Era troppo marrone, troppo scomoda, troppo lontana, i mobili non mi appartenevano, non avevo un comodino né un phon per asciugarmi i capelli. Decisi di tornare indietro, per sentire nuovamente quegli odori che mi erano amici – le pareti rosa sanno di mughetto e di pulito – per ritrovare quegli amici di cui conoscevo tutti gli umori e quei suoni di traffico e bicchieri che tintinnano e che coloravano i miei pomeriggi.
Ma, come era prevedibile, la disperazione, una volta che ti si aggancia all’essere, è difficile cacciarla. Mi resi conto che non stavo bene in nessun posto. Che non appartenevo a nessun posto. A quel punto, un pensiero si faceva prepotentemente strada: senza radici, come avrebbero potuto fiorire i miei rami? Sarebbero rimasti secchi, in balia del freddo e delle interperie. Per la prima volta scoprivo cosa significava non solo non sentirsi a proprio agio, ma si insinuava in me quel malessere derivante dallo sradicamento. Mi sentivo come uno di quegli alberi che dopo una tempesta si ritrovano loro malgrado sul ciglio della strada, con i pezzi di cemento o di terriccio ancora appesi, inermi.
Tornai in Francia, cambiai appartamento, quella sensazione non decideva ad andarsene. Cambiai gruppo di amici, era ancora li’, persistente. Cambiai modo di mangiare, taglio di capelli, stile, niente da fare. Ancora li’, ancora sofferente. Più combattevo più mi ritrovavo sfinita da questa lotta impari contro un nemico che – se esiste – è infido abbastanza da non farsi vedere. Si nasconde nel retro della testa. Mi sono chiesta per tanto tempo che cosa, effettivamente, facesse casa. Per qualcuno sono le persone, ma io non posso dare tutto questo peso a chi mi sta attorno, si ritroverebbero un peso non preventivato attaccato alla gamba. E si sa che cosa facciamo quando succede: la gamba la scrolliamo, cercando di liberarci da quell’impedimento che ci appesantisce. Per altri sono i luoghi d’infanzia, ma la mia infanzia è più cerebrale che spaziale, non funzionerebbe. Per altri è il lavoro, ma ancora non faccio il lavoro che veramente amo a tempo pieno, quindi non sarebbe una via praticabile. Per me nulla è casa. Tutto è una tessera di un puzzle che so già, anche se non lo accetto, non concluderò mai.
Poi, ieri, l’illuminazione.
Provvisoria, ecco cosa sono.
Ho tutto e non ho niente, disperdo addii e arrivederci come fossero coriandoli, amo tantissimo luoghi e persone che prima o poi abbandonerò o che mi abbandoneranno. Provvisoria, vivo nell’onda dell’umore e dell’amore, dell’odio e del vento. Cresco per poi appassire subito dopo, perché non trovo un nutrimento costante che possa farmi sbocciare davvero.
Sono provvisoria, e ieri ho deciso che va bene così.
Che non troverò forse mai pace e che va bene così.
Ieri ho capito che per domani potrebbe non essere abbastanza ma che, per oggi, va bene così.
Provvisoria sì.
Però sono io.
E va bene così.
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