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La tecnologia e l'individualismo che camminano tenendosi per mano

  • Immagine del redattore: Ivana Ferriol
    Ivana Ferriol
  • 4 giu
  • Tempo di lettura: 9 min

Non avrai tempo né voglia di leggere tutto l’articolo fino alla fine.

Ma non è colpa tua, piuttosto della cultura digitale in cui sei immerso, dettato dalla velocità che va in contrasto con la lentezza dell’introspezione e della riflessione.

Ma io ci provo lo stesso a lanciare questo amo, sperando potrai inseguire il mio pensiero.

tecnologia individualismo

La nostra epoca è incentrata sul narcisismo cronico. Sarà cominciato con Nietzsche e il concetto del superuomo, colui che non ha bisogno di Dio, della moralità che ha battuto ogni confine creando una nuova esistenza. O forse avrà influito anche il concetto di James Joyce del flux of consciousness fino ad arrivare a Freud che ha dato vita alla psicanalisi. Concezioni, guide che si sono evolute fino ai nostri giorni, spingendo sempre di più l’individuo verso l’idea che ci completiamo da soli e non abbiamo bisogno di nessuno, di un amore, di una famiglia, di un figlio di un amico. Ci aveva provato anche Seneca molto tempo prima a portare avanti questa idea che l’unica fonte di gioia è dentro di noi: chi non si appoggia all’altro, non vedrà mai rovina nella sua vita. Ma è davvero così? In effetti il discorso sembra non fare una piega.


Ma fino a quanto può esser vera questa cosa?

Mi hanno fatto riflettere alcune parole dell’attore Francesco Favino.

“Viviamo in un mondo che ti spinge sempre più a pensare che tu devi stare bene da solo. E questa è una cosa secondo me contraria proprio alla natura dell'uomo. Invece per tanti motivi, che sono legati a tante dinamiche, ci fanno credere che prima di stare bene con un'altra persona dobbiamo stare bene con noi stessi. Io se non sto con un'altra persona non so chi sono, come faccio a stare bene? Quella è una grande miseria secondo me. La letteratura di una miseria che ci viene raccontata come se fosse una ricchezza". 

Tutti hanno gridato allo scandalo, addirittura alcune psicologhe hanno definito queste “parole pericolose” ma forse il concetto che voleva esprimere è molto più ampio.


Cerchiamo di analizzarlo insieme.

La psicologia sociale ci dice che la personalità si forma, in parte, in rapporto con l'altro, attraverso le interazioni che si vivono durante la crescita, soprattutto nei primi tre anni di vita. Le relazioni significative, come quelle familiari, influenzano la nostra comprensione del mondo, il modo in cui percepiamo noi stessi e gli altri e plasmano il nostro comportamento e le nostre emozioni. Insomma, l’uomo da solo è una mina vagante, non sa chi è e cosa vuole ed è più facilmente condizionabile da un potere forte, più facilmente manipolabile.

Inoltre, la Natura ci insegna che la relazione con l’altro, fare gruppo è fondamentale per sopravvivere e non diventare una razza in via d’estinzione ma forse questo ce lo stiamo dimenticando. Attenzione, nessuno sta insinuando che bisogna tornare alla vecchia idea di famiglia, che bisogna procreare a tutti i costi, lascia stare! Fai figli solo se non te la senti. Certo, perché chi se la sente, non ci ha pensato abbastanza. Chi non se la sente, vuol dire che ha capito tutte le responsabilità e le difficoltà. Allora se non te la senti, potresti essere un bravo genitore. Con l’inquinamento, con le guerre, con la plastica, con il senso di onnipotenza e anche con questa scelta di non procreare (immagino già i commenti!), l’uomo si estinguerà. Ci stiamo riuscendo.

Basta restare soli. È sufficiente cedere a un mainstream che ci isola sempre di più.

Ne parlava anche Durkheim, analizzando la solitudine del mondo industriale attraverso il concetto di anomia, assenza di valori. In un mondo disincantato dove ci dicono che non dobbiamo più credere a nulla (e forse da un lato hanno anche ragione).


Ma cosa succede se l’uomo diventa un’isola?

Cosa succede se trionfa l’individualismo sul collettivismo ancora per tanto tempo? Potranno ancora esistere le lotte di classe? Le rivoluzioni di massa contro la politica? Qualcuno diceva che l’unione fa la forza. Ma non ci crediamo più. È una frase demodé.

L’essere umano è l’unico essere vivente sulla Terra forse che non cerca più il branco. Ma si rinchiude nella sua solitudine, in casa davanti a uno schermo, suo unico amico.

Non si va più a fare shopping con le amiche, perché gli acquisti si fanno on line

Non si va a cena fuori, perché si è perso il gusto del cibo e delle cene tra amici a favore di ordini fast.

Questo fa male, quello è immorale mangiarlo e poi, per compensare, ci riempiamo di integratori alimentari facendo guadagnare le multinazionali farmaceutiche. Ma insomma! Diamo al nostro corpo i nutrimenti che necessita in base alla sua evoluzione nel tempo. è così difficile? Fa paura quasi dirlo che “ti mangiano” per rimanere in tema.

sociologia

Ma ora parliamo, anzi sparliamo un po’ dei social.

Certo, hanno amplificato le possibilità di socializzare, di fare comunità. Tuttavia le dimostrazioni di affetto si riducono a un emoticon, condivisione di contenuti senza senso, perdiamo tempo a votare con un like il fondoschiena meglio ritoccato, ci impegniamo a modificare foto con l’AI e perdiamo tempo a mettere like a qualcuno che le foto ritoccate le ha sapute fare meglio di noi.

Ci va bene che circolino foto di sorrisi per illuderci che il mondo sia bello. Diamo popolarità a persone solo per un profilo fatto bene, con frasi scopiazzate di un autore che mai avrà letto e con foto filtrate ai limiti della realtà.

E cosa c’è offline? Il bello è che a nessuno importa più. Diamo più importanza a un’immagine fasulla che alla realtà, perché la realtà ha la colpa di essere offline e quindi non esiste.


Abbiamo davvero perso la capacità di farci piacere una persona che abbia la pelle non levigata? O che non sappia scattare foto instagrammabili? Ogni giorno che passa diventa tutto sempre più segmentato e fittizio. Libri, canzoni, non le conosciamo più per intere, ci bastano poche frasi per un minuto di reel. Perché nessuno ha più voglia o tempo per ascoltare un pezzo intero. Ci vantiamo di conoscere Seneca per una frasetta condivisa in un post. Pensiamo che basti condividere una storia per renderci attivisti. Diventa facile stordirsi con etichette che ci diamo da soli, pur sapendo che non ci appartengono nella realtà.


Dove sta il contatto? Le sensazioni di tenersi la mano? Innamorarsi di un sorriso imperfetto

Fare una sorpresa a un amico bussando al citofono sotto casa, come si faceva un tempo.

La verità è che siamo una miriade di solitudini segmentate rintanate in casa e diamo meno fastidio così. Tutto quello che facciamo e pensiamo rientra in un algoritmo, siamo controllabili. Condividiamo storie facendo sapere sempre a tutti dove siamo. Abbiamo barattato la privacy con la visibilità. Non c’è neanche più il divertimento di “conoscere una persona, farle domande, scoprirla piano piano” basta guardare il profilo per capire che film guarda, cosa ama mangiare e fare.

Ma ci chiediamo ogni tanto davvero perché corriamo a fare contenuti? Stiamo a un gioco di cui non conosciamo le regole, creare contenuti a raffica, lavorando come schiavi gratis, regalando la nostra vita.



Starai pensando “ecco le noie contro internet”

Hai ragione, il concetto che la cultura dominante usi Internet per darci un'esperienza isolante e individualizza l’abbiamo sentita e letta fin troppo. Questo dibattito ruota attorno all'idea che Internet possa sostituire le interazioni umane reali, causando un senso di alienazione. 

Certo che internet aiuta la socializzazione e aumenta l’accesso alle informazioni ma le fonti non sono mai verificabili e il diritto di proprietà non esiste più. Può girare tutto e il contrario di tutto, Internet ha eliminato i confini e, se da un lato permette agli artisti di essere più vicini ai fan, dobbiamo pensare anche all’industria musicale che è in ginocchio: l’accesso alla musica è per tutti e sempre meno persone acquistano vinili o cd e l’unico guadagno per chi produce musica è tornare a fare tour di concerti. Questo sgretolamento di confini è un vantaggio, per alcuni punti di vista ma può anche diventare un problema. Weber parlava della religione come oppio dei popoli e, oggi, internet ora è il nuovo oppio che ci dà l’illusione di onniscienza e di socialità.


Cosa dice la sociologia a riguardo?

Ci sono tanti sociologi che hanno cercato di analizzare con metodologie scientifiche la cultura digitale. Tra questi, c’era chi vedeva un gran vantaggio nei social: Manuel Castells  vedeva benefici in internet, introducendo il concetto di capitalismo informazionale, che consiste nel poter comunicare con chiunque in qualsiasi parte del mondo. E anche l’informazione è un valore.

Pierre Lévy, invece, teorizza un concetto di l'intelligenza collettiva, che avviene attraverso i nuovi media che permettono una partecipazione attiva in un cyberspazio che non ha gerarchie.

Altri sociologi invece non hanno un punto di vista molto positivo sul digitale. Ad esempio, Zygmunt Bauman ha analizzato l'impatto di internet sulla società, sostenendo che ha contribuito a liquefare i rapporti umani. Secondo Bauman, l'uso della rete può portare a una mancanza di impegno nelle relazioni interpersonali, poiché la comunicazione online è spesso più veloce e meno impegnativa rispetto a quella faccia a faccia.


Insomma, oggi siamo più connessi, ma meno uniti. Come se la nostra capacità comunicativa si fosse anestetizzata. Ma è davvero colpa solo di internet? Non proprio. La rete ha sicuramente creato un nuovo contesto e il contesto influenza sempre ogni individuo e quello della rete è facile e veloce. E dato che la capacità di apprendimento e riflessione è in realtà slow, diventiamo anche noi meno predisposti alla lentezza, all’impegno.

Le nuove generazioni sono nate in un contesto in cui è possibile essere 24/24 connessi con chiunque. Ricordate quando gli sms si pagavano e le chiamate erano interurbane? In ogni minuto al telefono, in ogni sms pesavamo ogni parola, davamo più qualità alla comunicazione proprio perché il tempo era limitato per le chiamate, così come lo spazio per scrivere gli sms.

tramonto

Cosa cambia nell’avere una comunicazione senza limiti?

È rafforzata davvero? Sembra invece che la conversazione stia diventando obsoleta, a tratti imbarazzante, basata al 90% su superficiali contenuti del web. Si passa gran parte del tempo a guardare un monitor luminoso dove scorrono video e immagini sempre meno reali.

Immaginiamo per un attimo cosa penserebbe un extraterrestre che arrivando sulla Terra ci vedrebbe tutti immobili a fissare una scatola luminosa.

La conversazione diventa frammentata sintetica priva di emozioni forti e si preferisce sempre più scrivere che parlare a telefono. È diverso perché sentire la voce è una comunicazione più completa che permette di percepire meglio lo stato d’animo dell’altro.


Durkheim e il concetto di Anomia

Durkheim era un sociologo di fine XX secolo che ha introdotto il concetto di anomia, un concetto che potremmo estendere anche ai nostri giorni. Significa letteralmente assenza di regole e norme. Stava cercando una spiegazione all’aumento di suicidi e devianze avvenuta con l’esplosione industriale in Europa. Attribuì la colpa al contesto sociale (cambiamento struttura della città, colori). La nuova burocrazia faceva promesse senza dare reali strumenti per raggiungere degli obiettivi.

I valori creano limiti positivi e criteri condivisi che fanno base a un senso di appartenenza sociale. Ma i valori sono spariti (religione, famiglia, senso di comunità) lasciando spazio a una cultura individualista. Il collettivismo è sopravvissuto in poche realtà sociali occidentali in maniera quasi miracolosa, sfuggendo alla forza livellante del razionalismo moderno. Sembra che l’anomia sia stata amplificata dall’avanzamento tecnologico e ciò interessa soprattutto le nuove generazioni che costruiscono la propria identità sociale non più nel gruppo di amici o nella famiglia ma attraverso i social interagendo con infiniti contesti virtuali, accedendo a informazioni incontrollate, entrando in contatto con esperienze lontane dal contesto originario.


E quando puoi trovare tutto velocemente e facilmente attraverso la rete, non hai tempo di annoiarti, di immaginare, di fantasticare su qualcosa che ancora non sai o hai mai visto e la creatività si spegne. Peggio ancora se le informazioni e video a cui hai accesso non sono reali. Tutto fluisce troppo velocemente per fermarsi a riflettere su come spendiamo il tempo e la nuova corsa all’oro sembra proprio quella di emulare gli influencer per diventare famosi e ricchi. Si perdono energie dietro un fare compulsivo che non ci dà tempo neanche di capire dietro cosa stiamo correndo.

Per dirla con ironia, i nostri smartphone ci conoscono meglio del nostro partner, indovinano i nostri gusti musicali, i nostri amici, i nostri appuntamenti, i libri che preferiamo e le ricette che cuciniamo. Navighiamo senza sufficiente comprensione della maggior parte dei fenomeni di cui siamo protagonisti. 



Ma perché la cultura dominante tollera tacitamente questa forma di ossessione collettiva?

Ci tiene buoni. Siamo sazi di informazioni, ci sentiamo liberi, pieni di amici, onnipotenti e onniscienti. Abbiamo l’illusione di libertà, c’illudiamo di poter interagire con l’artista e il politico di turno commentando sotto a un post e questo calma la nostra sete di cambiamento. E le strade sono tranquille perché il caos l’abbiamo fatto ordinatamente da un monitor a casa nostra. E tutti sono contenti.


I social amplificano la democrazia?

Riteniamo attraente chi è popolare, ci illudiamo di avere autonomia intellettuale sui social, in realtà è dimostrato che abbiamo una minor propensione a esprimere la nostra opinione on line se è diversa dalla maggioranza, dalla nostra maggioranza, cioè i nostri contatti. Insomma, i social alimentano la spirale del silenzio. C’illudiamo di esser liberi di scegliere e votare quando tutto si riduce a scegliere tra A e B. ma abbiamo perso la creatività per guardare ad altre alternative diverse da quelle tra cui possiamo scegliere.

I social ci portano all’ossessivo creare contenuti. Lavoriamo gratis per arricchire qualcosa o qualcuno e neanche ce ne rendiamo conto. Eppure

quando tutti sono lì a trasmettere, non rimane nessuno ad ascoltare”,

ci ritroviamo davanti a una perdita della capacità di lettura profonda. La soluzione potrebbe essere educare non solo a come usare gli strumenti ma anche sui processi che ne conseguono. Bisogna sviluppare una maggiore sensibilità sugli effetti delle interazioni online, quando si è offline. Come ogni strumento ideato dall’uomo nella storia, troveremo magari il nostro equilibrio integrando in modo equilibrato tutto questo, ridando il giusto valore a ciò che davvero conta: le relazioni reali, la vita imperfetta così com’è.


Torniamo a guardarci negli occhi. Torniamo a far gruppo

Torniamo ai valori della famiglia, degli amici. 

Creiamo confini sani quelli che ci diano un senso di appartenenza e ci rendano meno soli meno vulnerabili, meno controllabili.


La tecnologia e l'individualismo che camminano tenendosi per mano - di Ivana Ferriol

 

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